Alberto Bucci: Fuori tempo

Diverso tempo fa ero in libreria a curiosare tra i banchi per vedere se avessi potuto trovare un libro da leggere che mi coinvolgesse. Ne trovai uno di Alberto Bucci.

Il titolo “Fuori tempo: riflessioni di un coach tra vita e canestri ” aveva catturato la mia attenzione ma quello che mi convinse a comprarlo fu il retro di copertina dove trovai questa frase:
“Perché l’uomo è fatto di sensazioni, emozioni e debolezze che non è possibile sottoporre ad un cammino programmatico. Se non riusciamo più ad emozionarci, come facciamo ad emozionare i nostri giovani? Se non ci stupiamo più sarà difficile stupirli, e se i nostri occhi non colgono ciò che c’è di meraviglioso intorno a noi come possiamo meravigliarli?”
Lo comprai e nel pomeriggio lo lessi tutto d’un fiato. Nel libro Alberto Bucci racconta la sua storia di allenatore e di uomo, la sua visione e la sua filosofia di vita che è stata decisiva nel suo essere allenatore. Un libro imperdibile per i campionati di basket disputati ma soprattutto per le esperienze come padre e per i racconti in prima persona sulle amicizie e sui rapporti con i giocatori attraverso simpatici aneddoti come ii tanti spaghetti mangiati a mezzanotte a Rimini.

Purtroppo sabato 9 marzo Alberto Bucci se ne è andato dopo essersi battuto contro la malattia per otto lunghi anni. In un’intervista che ho letto su internet di qualche mese fa disse: “Nella vita il passato non conta, piangersi addosso non risolve i problemi. Io ho la mia vita e voglio viverla bene ogni giorno, mi impegno al massimo per riuscirci”.
Dan Peterson nel suo saluto ha scritto: “Alberto Bucci è stato un allenatore di grandissima semplicità tecnica, mai una cosa in più, mai una cosa in meno. Lui sapeva che erano gli uomini e non gli schemi a vincere le partite, e i suoi uomini gli hanno dato sempre il massimo, facendo miracoli per lui, superando spesso i loro limiti. Un giocatore fa così per un coach come Alberto Bucci e non si chiede neanche perché.”.

Bucci è stato anche un grande appassionato di calcio e grande amico di Carlo Ancelotti. «Ci siamo conosciuti dodici anni fa, alla presentazione della squadra di basket a Reggio Emilia. Come si dice in questi casi, ci siamo piaciuti subito. È scattato il feeling e non ci siamo più perduti. L’ho seguito ovunque, al Milan come al Chelsea, a Parigi, a Madrid a Monaco. E adesso qui al ritiro del Napoli. È un rapporto che si basa sulla condivisione di valori che per noi sono importanti. I valori sono tutto nella vita. C’è anche una sintonia caratteriale. Ero un allenatore schivo, non amavo la ribalta sempre e comunque, al termine della partita cercavo di scappare, non ambivo a essere sempre al centro dell’attenzione. Ancelotti è come me, vuole vivere in maniera normale il rapporto con le persone. Alla base di tutto c’è il rapporto umano»

Intervistato sulle affinità con Ancelotti risponde: «Un allenatore dev’essere bravo a calarsi nella realtà che va ad affrontare. Deve trarre il meglio dal materiale che ha. Non ho mai concepito quei tecnici che impongono la loro pallacanestro o il loro calcio. Che significa? Non posso proporre il minestrone di verdure a prescindere dagli ingredienti che ho. Se ho le verdure, va bene. Ma se ho pesce e carne, sarebbe assurdo farlo. Non condivido il concetto che quella squadra è lo specchio di un determinato allenatore. Un tecnico deve offrire i propri ingredienti ai calciatori, questo sì ma poi ciascuno metabolizza gli alimenti a modo suo. Per il mio modo di allenare, non esiste dire a un giocatore: “o fai così o non giochi”. Per me, quelli sono allenatori limitati. In questo, Ancelotti e io siamo simili, abbiamo la stessa visione.
Vediamo il ritiro allo stesso modo. Sono momenti importanti soprattutto per cementare il gruppo. Deve crearsi l’armonia trai giocatore, l’allenatore e lo staff. È importante che ogni malinteso venga risolto, anche attraverso confronti duri. L’importante è che siano improntati alla sincerità e al desiderio di superare i conflitti. Guai a mantenere qualcosa dentro, quel qualcosa rischia di crescere giorno dopo giorno e poi finire col creare problemi seri”.

Descrive Ancelotti come «un allenatore cui piace infondere i suoi principi calcistici, ma poi ama anche lasciare al calciatore la sua libertà. Gli piace giocare, ma anche far giocare. Gli piace il calciatore che sa prendersi anche la sua libertà e le sue responsabilità. Non a caso, Carlo è un allenatore che ha vinto ovunque sia andato. Ha stabilito dei record che vengono sottovalutati. A Madrid ha vinto 22 partite consecutive, non so se mi spiego, oltre ad aver vinto quello che ha vinto. Col Chelsea ha stabilito il record di gol fatti nel campionato inglese (quest’anno battuto dal City di Guardiola). Capisci la sua forza perché è un uomo di sport che non cerca mai alibi. E quando grida, lo fa solo nel chiuso dello spogliatoio. All’esterno difenderà sempre la squadra e ogni singolo giocatore».

Alberto Bucci ha vinto tre scudetti sulla panchina della Virtus (il primo, quello della stella, nel 1984 poi nel ’94 e nel ’95) e 4 coppe Italia (2 Virtus, le altre a Verona e Pesaro. Iniziò la sua carriera in Fortitudo,a 25 anni, poi ha guidato oltre alle squadre citate anche Rimini, Fabriano e Livorno (che portò, sponda Libertas, dalla A2 alla finale scudetto perduta con Milano).
Uno scudetto perso all’ultimo secondo con l’Enichem Livorno a causa di una decisione arbitrale che ancora oggi fa discutere: l’ultimo canestro non venne convalidato e vinse Milano. «Allora non c’era il Var – ricorda Bucci – l’arbitro era impegnato in due situazioni, non era attento. Capitò anche dell’altro, un giocatore – Forti – giocò dodici minuti con cinque falli. C’erano le condizioni per ottenere la ripetizione della partita. Ma nello sport sono cose cose che succedono, bisogna saper accettare anche questo».
Dal 2016 Bucci era tornato in Virtus come presidente seguendo la sua squadra del cuore fino all’ultimo.